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Fonti del Clitunno: dove l’acqua ricorda

Arrivi lungo una strada di olivi e filari, una linea morbida fra Trevi e Spoleto che sa di terra buona e di vento leggero. A un certo punto la pianura si fa sussurro, le fronde si stringono, l’aria cambia odore: esce dal fondo un fresco di pietra e di erba bagnata, un profumo antico come una parola imparata da bambini. Le Fonti del Clitunno non arrivano con un colpo di scena; arrivano piano, come ciò che è sempre stato qui. Prima un mormorio, poi un luccichìo tra i rami, infine l’acqua intera che si mostra: una vasca naturale di smeraldo e vetro, filamenti d’erba che ondeggiano lenti sul fondo, cerchi perfetti intorno a una foglia scesa dal pioppo.

Ci si avvicina quasi in punta di piedi. La superficie riflette tutto: il cielo, le chiome, una nuvola di passaggio, il volto di chi guarda. Ogni passo sulla riva cambia l’immagine, come se qualcuno avesse girato appena lo specchio. La trasparenza è tale che viene voglia di contarle, le piccole sorgenti, una a una; si vedono le sabbie muoversi dal basso, come un respiro. L’acqua qui non corre: nasce. Lo fa in silenzio, ostinata, precisa. Poi si ricompone in un laghetto tondo, riposa un poco, e infine parte. È il Clitunno che comincia, il fiume che ha dato nome a tutto.

Intorno, il parco è un teatro che non finge. I pioppi allungano tronchi chiari e foglie leggere, i salici sfiorano l’acqua con dita verdi, i vialetti si infilano tra macchie d’ombra e aperture di luce. Ci sono panchine di legno consumate dalle stagioni, una staccionata che scricchiola, un ponticello che invita a cambiare sponda solo per vedere come si sposta il colore. A tratti il sole scende in diagonale e accende il fondo; il verde si fa più intenso e capisci che qui basta chinarsi per incontrare un paesaggio intero in una manciata di centimetri: minuscole bolle, sabbia che pulsa, filamenti vegetali che si piegano come capelli nell’acqua.

Le Fonti hanno memoria lunga. Prima che questo fosse un parco ordinato, qui c’era un luogo sacro, una sorgente venerata; gli antichi cercavano nell’acqua auspici e risposte, lavacri e riti. Non serve un cartello per capirlo: lo dice la misura del silenzio. Più tardi altri pellegrini sono arrivati, questa volta con la penna in tasca. Poeti, viaggiatori, scrittori hanno cercato parole per raccontare quel che oggi metti in tasca senza fatica: la grazia di una chiarezza. Hanno visto tori imbiancati per cerimonie, riflessi che sembrano pensieri, l’ombra lunga di una classicità che qui non si mostra in marmo ma in acqua.

C’è un gesto semplice che tutti, prima o poi, fanno: sedersi. Il legno di una panca, il bordo di pietra, una radice allungata. Ci si mette accanto all’acqua e si lascia che il suono faccia ordine. Da vicino il rumore è una trama: un gorgo più pieno, un filo sottile, un piccolo trabocco che batte sempre uguale. Se chiudi gli occhi distingui i livelli, come fossero strumenti diversi di un’orchestra che sa suonare piano. Riaprendoli, l’acqua è di nuovo lì, uguale e nuova; inevitabilmente ti capita di sorridere senza un motivo preciso.

Le stagioni cambiano pochissimo e cambiano tutto. In primavera le chiome sono di seta nuova, i verdi si moltiplicano, l’acqua sembra più vivace; in estate il sole spiana la luce a mezzogiorno e la sera allunga ombre lunghe, che l’acqua accoglie come ospiti di riguardo; in autunno il giallo dei pioppi e il rame dei salici si sciolgono nel lago e la superficie diventa una tavolozza quieta; in inverno la bruma tiene insieme rive e cielo, il respiro si vede e il silenzio ha una qualità più profonda, da cappotto. Non c’è mai spettacolo. C’è una continuità gentile che insegna a restare.

Poco oltre, lungo la strada, una piccola architettura aspetta chi sa guardare: il Tempietto del Clitunno. Non è grande, non è altisonante. Sta lì come una miniatura severa, con un frontone che ricorda l’antico e un cuore cristiano che ha trasformato la sorgente in luogo di preghiera. La pietra chiara prende luce di taglio, le colonne marcano un ritmo breve, all’interno resistono pitture che il tempo ha solo attenuato. Vedi addosso a quelle mura un gesto doppio: la mano che recupera, la mano che reinventa. È una bellezza che non schiaccia: si offre e, se vuoi, entri e resti un po’, in piedi o seduto, a fare quello che più si addice a questo luogo: ascoltare. Il rumore della strada arriva appena, l’acqua — anche qui — sembra una presenza che parla senza voce.

Tornando alle Fonti, il passo si è già fatto diverso. Non cerchi più “il punto migliore”, lasci che siano l’acqua e la luce a scegliere per te. Ti capita di seguire per minuti interi il viaggio di una foglia: si avvicina alla sorgente, gira su se stessa, si allontana, si ferma contro una lama d’erba e riparte. Un’anatra disegna una scia sottile, una gallinella di acqua scrive un arco breve e scompare sotto la sponda. In un angolo, dove il sole non arriva, l’acqua sembra più blu; a pochi metri, dove un raggio sfonda, è vetro.

Se guardi bene, le rive raccontano lavoro. Pietre allineate, un parapetto, un sentiero accudito. Qualcuno, ogni giorno, mantiene semplice ciò che potrebbe diventare complicato. Qui la bellezza non è un caso; è un accordo tra natura e cura. E si vede, in piccoli dettagli: una tavola fissata al punto giusto, un ramo potato perché non copra l’occhio della sorgente, un cestino svuotato quando nessuno guarda. È un modo di dire grazie al luogo stesso: permettere all’acqua di restare acqua, alla quiete di restare quiete.

Quando arriva l’ora di ripartire, non c’è un addio vero e proprio. Le Fonti si lasciano alle spalle quasi di nascosto. Una volta rimessa la strada fra te e l’acqua, il profumo di bagnato lascia il posto all’odore d’olivo, la luce si fa più dura, un trattore si sente di lontano. Eppure il lago chiaro resta dietro le palpebre, come una fotografia liquida. Ti accorgi che ciò che porti via non è tanto un’immagine quanto un ritmo: un modo più lento di guardare, una pazienza nuova, una piccola scorta di silenzio.

Più tardi, altrove, basterà un rubinetto che canta nel lavello o una pozzanghera che tiene il cielo per un minuto per ritrovare quel sorriso. Le Fonti del Clitunno fanno questo: non stupiscono a colpi di scena, ma lavorano a bassa voce, come una formula ben detta. Ricordano che l’acqua ha memoria, che la chiarezza richiede cura, che il sacro può nascondersi in un riflesso. E che a volte, per sentire davvero, basta sedersi e lasciar passare un po’ di fiume dentro di sé.

 

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